27 / 09 / 2012

Bellavista: eccellenza per vocazione

Nel racconto di Mattia Vezzola, la vicenda professionale e umana, che lo ha portato insieme a Bellavista, a raggiungere vertici qualitativi capaci di esprimere l’assoluta unicità di identità e di stile di un’azienda e di un prodotto.
Un risultato ottenuto attraverso una perfetta integrazione fra le diverse componenti coinvolte: “…ho sempre sostenuto che le persone che collaborano con un’azienda, non si devono limitare a dare la loro prestazione professionale, ma possono sentirsi parte del progetto di crescita, addirittura partecipare come privilegiati all’interno del progetto. Ciò significa poter creare essi stessi, insieme alla proprietà, l’idea di brand aziendale…”

Come si presentava la Franciacorta all’inizio del tuo percorso?

Il territorio dal punto di vista geologico/enologico era straordinariamente vocato alla produzione di vini d’eccellenza destinati alla rifermentazione in bottiglia. Questo per cause naturali. Ma era anche, e soprattutto, un territorio che aveva in sé una grande energia intellettuale e propulsiva, grazie all’intelligenza di uomini e imprenditori che lo abitavano e vivevano con grande naturalità.
Il mio percorso nasce dalla valutazione della vocazionalità, del momento storico, dall’intuizione e volontà di perfezione di alcuni uomini che hanno poi dato alla Franciacorta la luce di un progresso e di un futuro. Tutto questo in un momento straordinario verso la metà degli anni 70; un momento di impulso e di energia focalizzato esclusivamente sulla produzione di qualità.


E come si è inserito il progetto di Bellavista?

Scandito nel tempo (non tutto subito, ma crescita graduale) e nella coerenza della direzione presa (una volta presa, sempre mantenuta).


Quali allora le tappe?

L’azienda è cresciuta sulla convinzione che la viticoltura vocazionale è basilare. In secondo luogo: la gestione in maniera prevalentemente naturale della viticoltura, che allora si iniziava, e il coinvolgimento emotivo/professionale degli uomini, come trampolino per lanciare il pensiero di fondo della proprietà. Terzo aspetto: un’analisi attenta all’indirizzo creativo del profilo sensoriale, ovvero fare vini che, pur nutrendosi della vocazionalità, potessero esprimere il valore specifico degli uomini impegnati a farlo e le caratteristiche di suadenza, eleganza e gentilezza che sono intrinseche nel territorio e nella materia prima. Quarto: applicare tecnologie di rispetto che fossero sinergiche tra principio della tradizione e avanguardia. Tutto questo, anche grazie ad incontri che hanno contribuito ad aprire la mente e a fissare dei punti di riferimento produttivi.

 

Avete così sia acquisito consapevolezza delle potenzialità del territorio sia definito il gusto di Casa Bellavista. Questa fase avrà richiesto tempo…

Si, circa trenta anni, ma è non ancora finita.


Ah, non è ancora finita… Avrete però definito delle linee aziendali.

C’è un disegno, certo, con la sua idea di fondo che nel tempo si perfeziona. Noi siamo partiti da 3 ettari e mezzo – oggi Bellavista può contare su 200 ettari, su un’età media dei vigneti di 20 anni, su 42 dipendenti con età media di 39 anni e con professionalità media di 10.


Mi vien da dire, il vero patrimonio aziendale.

Proprio così! Essendo un’azienda strutturata per dare valore alla manualità e al pensiero, è chiaro che la crescita professionale di ogni singolo collaboratore è determinante perché il dettaglio venga curato, valutato e valorizzato. Per ciò occorrono gli anni, il tempo, le generazioni.


All’interno di questo percorso, di ormai 35 anni, ci sono stati dei passaggi cruciali?

Sì, certo. La crescita è sempre avvenuta anche grazie al confronto, come dire, fra posizioni abbastanza contrapposte che però non hanno mai intimorito: ad esempio, percorrere la via della qualità va normalmente in conflitto con l’economia di una azienda. Il punto cruciale, quindi, è la convinzione ferrea, ferma e coraggiosa della proprietà che ha consentito di percorrere questa strada senza tentennamenti.
Sin dall’inizio, abbiamo individuato la strada maestra e quando si elabora un progetto nuovo, sono due le cose più importanti: la direzione e la velocità del passo. Bellavista non dico abbia indovinato tutto e con facilità, ma senz’altro ha sbagliato pochissimo; si è così trovata un patrimonio vitivinicolo e una filosofia di produzione ben radicati nella famiglia e nei collaboratori in primis e, per conseguenza, nel vino che va nel bicchiere.


Tra le varie sfide e le conquiste di Bellavista, il progetto Satèn. Non so quanti sappiano che proprio Bellavista è la madre di questo prodotto. Come nasce questa esperienza?

Nasce da una visione, da una fortuita, occasionale situazione e dal desiderio di rompere i pregiudizi, in particolare quello che considera un vino elegante, un po’ dolce, un po’ frizzantino, come più indicato per le donne. Un vino come questo veniva percepito inferiore e posizionato verso il basso, per un possibile consumatore non di qualità, o appunto di qualità bassa. Insomma, non proprio una felice premessa per un prodotto destinato al pubblico femminile.

Un aneddoto mi ha chiarito le idee: mi trovavo a Venezia, a cena, con un amico; vediamo camminare sul lato opposto del canale, una ragazza meravigliosa. Passo armonioso, grande femminilità e musicalità infinita; smettiamo di mangiare e come noi altre persone. È stata un’illuminazione. In particolare, ho capito che la femminilità che ha paralizzato un ristorante, meritava un vino con profilo qualitativo e gustativo diverso, più alto e non banale. Erano gli anni ‘83/84. Ho così pensato a uve chardonnay, di alta collina, esposte a sud e che danno origine a mosti, quindi vini, di grande garbo, freschezza, suadenza, croccantezza; questi vini, almeno per il 50% provenienti da mosti fermentati in vecchie botti, davano più complessità, più volume, più struttura, più persistenza.
Rifermentati poi in bottiglia con una atmosfera in meno di pressione, questi vini si manifestavano con una crema estremamente sottile e con una bollicina estremamente raffinata. Il termine Satèn che, non etimologicamente ma foneticamente, ricorda la setosità, che so, dello chiffon, di tessuti morbidi, è risultato il più efficace fra i nomi proposti da SGA. Il nome è stato poi depositato e regalato al Consorzio, con nostro grande piacere di vederlo adottato da tutto il territorio della Franciacorta.

E in tutto questo percorso, che ruolo ha la comunicazione?

Io ho le idee molto chiare sul tema. Faccio però un passo indietro: un’azienda può pure imporsi di fare il vino più buono del mondo, ma se poi viene distribuito o comunicato male, l’azienda non può che uscirne penalizzata.
E viceversa; un’azienda può far realizzare la più bella etichetta del mondo, affidare il mercato al miglior distributore, ma se il vino è mediocre, ne esce altrettanto penalizzata.
Intendo dire che un’azienda ha l’obbligo di cercare l’equilibrio tra la qualità (non dichiarata ma percepita dal consumatore), una comunicazione sobria e reale e un’immagine altrettanto corrispondente alla realtà.

Cosa vi siete proposti di comunicare, dunque?

Quello e quelli che siamo, attraverso la forma della bottiglia, dell’etichetta e dei colori in sintonia con il valore del vino percepito dal consumatore.
Io ho sempre sostenuto che le persone che collaborano con un’azienda, non si devono limitare a dare la loro prestazione professionale, ma possono sentirsi parte del progetto di crescita, addirittura partecipare come privilegiati all’interno del progetto. Ciò significa poter creare essi stessi, insieme alla proprietà, l’idea di brand aziendale, attraverso la sottolineatura della qualità oggettiva del prodotto.
Proprio perché questa armonia si realizzi, soprattutto l’agenzia deve vivere l’azienda nella sua complessità e nelle sue difficoltà; in caso contrario, la comunicazione diventa astratta, generica e potrebbe appartenere a qualsiasi altro prodotto di qualsiasi altra azienda.

Di cosa avete invece bisogno voi?

Che ogni virgola, ogni tratto, ogni colore, ogni rilievo testimonino l’impegno di 42 persone che lavorano per un obiettivo condiviso sin nel minimo dettaglio.
Per noi è un valore non indifferente: noi non scegliamo un grafico, o un fornitore, ma un compagno di viaggio, con cui raggiungere un’affinità di pensiero, di comportamento, di obiettivi. Parte agronomica, parte enologica, parte commerciale, parte comunicazione e grafica devono essere perfettamente allineate.


È un principio che tu usi da sempre.

Sì. Un fornitore, che è con te dall’inizio, sa come la pensi, cosa vuoi, non devi più spiegargli mille cose; le mille cose diventano dei pre-requisiti, per cui si cresce insieme nella sublimazione degli argomenti.


Si costruiscono delle relazioni più strette e tutti guardano nella stessa direzione.

Ripeto spesso una mia frase: “Non bisogna fare quello che piace, ma fare quello che resta”. Dire: “Mi piace più questo che quell’altro” è inutile, insignificante, superficiale, e se dopo un po’ di tempo non ti piace più, che fai, ricominci da capo? No, bisogna fare cose su cui c’è continuo allenamento e confronto; per tanti è banalità, per noi no.

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